Quest’anno, per tanti versi infausto, si celebra in tutta Italia il settecentenario della morte di Dante Alighieri, fiorentino. A me piace ricordarlo non per l’altissima poesia, la profonda cultura, la smisurata immaginazione, il coraggio politico, ma come uomo del suo tempo, che ne viveva quotidianamente costumi, disagi e passioni.

I giovani, oggi, lo trovano spesso incomprensibile e obsoleto, incasellato com’è tra regole stilnovistiche, funzioni politiche, giudizi e sentimenti fondati su scale di valori differenti, vizi come superbia invidia e avarizia che ormai non sembrano più tali. Dante tuttavia era un uomo, del suo tempo sì, ma un uomo che faceva politica, si spostava di corte in corte tra Firenze, Roma, forse Napoli, Venezia, la Lunigiana e la costa adriatica, si emozionava di fronte al “tremolar della marina”, alle albe e ai tramonti, al cielo stellato e alle dense foreste piene di oscurità e di pericolo. Ha amato e sognato un mondo più giusto, più equo, ha sperimentato delusioni, amarezze e solitudine, misconosciuto in vita dai “cittadin de la città partita” che oggi lo esalta e lo rivendica.

E allora guardiamolo da un’angolatura diversa, chiedendoci che cosa gli piaceva mangiare e che cosa offriva la tavola del suo tempo, quella tavola intorno alla quale gli antichi cronisti hanno fatto accendere le prime scintille dei terribili conflitti tra Guelfi e Ghibellini prima, tra Bianchi e Neri poi. La tavola quindi non solo come occasione per stringere alleanze, contrattare matrimoni, celebrare eventi importanti, ma come luogo di tradimenti, vendette e delitti. La storia è punteggiata di simili eccidi, che hanno ispirato alcuni episodi di Games of thrones, l’arcinoto fantasy di George Martin. Dagli Atridi ai Baglioni di Perugia, ai Borgia, ai massacri dei clan scozzesi dei Douglas e dei Campbell, le leggi dell’ospitalità venivano continuamente infrante con le spade e i veleni. A tavola, sicuramente, non si invecchiava.

Ma cosa mangiava Dante? Lui non ce lo dice, e tuttavia ricorda la “costuma ricca del garofano”, la spezia che insieme a tutte le altre contribuiva non solo a rendere appetibili carni rese insapori da metodi di conservazione e doppie cotture all’epoca in uso, ma ad equilibrare gli umori e a stabilire un rapporto fra uomo e cosmo attraverso un sapiente dosaggio di sapori, odori e colori. E le pregiate anguille di Bolsena, quegli infaticabili pesci che migrano dal mar dei Sargassi fino a noi, dove rischiano l’estinzione a causa dell’incontrollato bracconaggio di cui sono fatti oggetto. E il pane, condito con il dolore di chi sa di esser stato ingiustamente bandito, pena la morte, dalla sua città.

La nostra rubrica vuole invece concludere con una piacevole storiella sulla sua prodigiosa memoria e, soprattutto, sui suoi gusti a tavola. Si narra, infatti, che una sera d’estate in cui il Poeta sedeva a godersi il fresco su una pietra a lato dell’antica cattedrale fiorentina di Santa Reparata (il “Sasso di Dante” oggi indicato da una lapide), uno sconosciuto, nel passargli davanti, gli chiese quale fosse per lui boccone più squisito. “Un uovo” fu la laconica risposta. Passò un anno e, a Dante che sedeva alla stessa ora sulla medesima pietra quel tale, ripassando di lì si fermò e: “Come?” gli chiese: “Col sale” fu l’immediata risposta.