“Il dio Ra pianse e l’acqua dei suoi occhi cadde sulla terra trasformandosi in ape. L’ape costruì la sua dimora riempiendola col nettare dei fiori d’ogni genere di pianta. Così fu prodotta la cera, mentre il miele viene dalla sua acqua”.

È contenuta nel Papiro Salt (VII-V sec. A.C.) quella che forse resta ancora la più antica narrazione intorno al divino dono del miele, non prodotto dalle api ma originato dalle lacrime di un dio.

Un dono, peraltro, che si perde nella notte dei tempi (più antico ancora del nome ittita, melit, da cui sembra derivare), come stanno a dimostrare alcuni graffiti di epoca postglaciale scoperti in Spagna, nell’Africa del sud, e in India, In cui sono raffigurati dei “cacciatori di miele”. Ma non solo. Una leggenda amazzonica narra come “all’inizio dei tempi gli animali erano uomini e si nutrivano esclusivamente di miele d’api”. Miele che per i Veda è un dio e che anche la tradizione greco-latina presenta come un alimento divino preesistente alle stesse api: “Al tempo dell’Età dell’oro, il miele colava semplicemente dalle querce e Chronos dormiva, ebbro di miele, quando il figlio Zeus lo incatenò…”.

La complessa mitologia greco-romana, tuttavia, pur concordando nell’attribuirgli valore sacrale e origine divina, contiene numerose altre storie. La più nota di esse narra come Il piccolo Zeus, sottratto con l’inganno dalla madre Rea al padre (che intendeva ingoiarlo, come aveva fatto con altri figli per impedire che lo spodestassero), sarebbe stato nutrito col latte della capra Amaltea e col miele offerto dalle figlie del re Melisseo. Ma anche qui la tradizione si ramifica: ad allevarlo sarebbero state infatti due ninfe, Melissa e Amaltea. Noi ci limiteremo a sottolineare come il significato dei nomi Melissa e Melisseo significhino appunto colei/colui “che fa il miele”.

Un altro mito vuole che anche Dioniso sia stato nutrito col miele da una ninfa. Ma nelle Metamorfosi il poeta latino Ovidio inverte i termini della storia, attribuendo al dio il dono del prezioso liquido color dell’oro. Egli, infatti, procedeva danzando al ritmo dei sistri agitati dai satiri, quando il clamore fece sollevare dal bosco uno sciame di insetti sconosciuti, che Dioniso guidò verso un tronco dove li fece entrare e che essi riempirono di miele.

Zeus e Dioniso, tuttavia, non erano gli unici dei legati al miele e con offerte di miele onorati dai loro fedeli. Ad essi si affiancavano Artemide, spesso raffigurata con corpo e ali di ape, Proserpina, perciò detta anche “Mellita”, dea degli inferi ma anche della primavera in fiore, Apollo, Afrodite, e in genere tutte le divinità collegate a riti di fertilità e prosperità. E col miele i romani placavano il dio ctonio, Plutone, perché non si destasse sotto forma di serpente di fuoco scuotendo la terra.

Da parte sua, Porfirio, filosofo del III secolo, narra come gli antichi chiamassero melissas quelle che, fra le anime avviate alla nascita, erano destinate a vivere secondo giustizia. E ricordiamo che mélissai era il nome dato in Atene alle donne che, volendo purificarsi per partecipare alle feste Tesmoforie, digiunavano per un giorno e si astenevano per tre da ogni rapporto sessuale.

La credenza del miele come caduto dall’alto, “soprattutto al sorgere delle stelle e quando l’arcobaleno compare splendente nel cielo”, già sostenuta da Aristotele e da molti altri filosofi che lo consideravano una preziosa rugiada distillata dalle stelle, perdurò a lungo insieme a quella che lo considerava una sorta di pulviscolo dalle magiche proprietà vagante nell’aria per poi depositarsi sulle piante e nei fiori. Visioni che limitavano il ruolo delle api a quello di semplici raccoglitrici, che in nessun modo avrebbero contribuito alla sua elaborazione.

Del rugiadoso miel, celeste dono, adesso canterò” scriverà infatti Virgilio nel IV libro delle Georgiche.  Un dono veramente divino, e come tale già apprezzato dal padre della medicina occidentale, Ippocrate, che in esso vedeva una panacea per tutti i mali, aprendo la via agli studi di Asclepiade e Plinio il Vecchio.

Cibo perfetto e del colore più sacro – quello dell’oro – fu anche in nutrimento dei grandi iniziati come Pitagora, Platone, Pindaro, sant’Ambrogio.

Inalterato e inalterabile, esente da qualsiasi manipolazione, era simbolo della Verità: “Dolce è la verità” recitavano i sacerdoti egizi nel consumarlo durante le feste in onore di Thot, mentre gli aspiranti adepti del culto di Mithra lo usavano per purificarsi lingua e mani dal male ed esser degni della rivelazione del bene.

Anche nell’Antico Testamento – in cui si narra del “Paese felice” (Palestina e Libano) in cui scorrevano fiumi di latte e miele) e il popolo eletto poteva “succhiare il miele dalla rupe” (Deuteronomio) – il miele è connesso alla dolcezza della verità. Lo sostengono Salomone ne Libro dei Proverbi e il profeta Isaia nel profetizzare la venuta del Cristo. Di “locuste e miele selvatico” si nutriva il Battista nel deserto e “un po’ di pesce arrosto e un po’ di favo” offrirono a Gesù risorto gli apostoli increduli.

Rilevante, poi, è sempre stato il suo ruolo nei fondamentali riti di passaggio della vita: nascita, matrimonio e morte. In molte zone dellEuropa, dell’Asia, dell’Africa, quando nasceva un bambino gli si offriva del miele o col miele se ne spalmavano le labbra per garantirgli buona salute e allontanare oscure presenze. Miele era offerto anche nel corso delle cerimonie nuziali o lo si cospargeva sulla soglia di casa dei novelli sposi, o erano essi stessi a suggerlo l’uno dalle mani dell’altro come auspicio di tenero amore. Per non dire dell’espressione “luna di miele”, sulla cui origine e significato si sono versati fiumi d’inchiostro. E dell’idromele, la bevanda nordica ottenuta dalla sua fermentazione, detta anche bevanda della felicità e dell’amore.

Ma è il Cantico dei Cantici a celebrarne la sensuale dolcezza: “Le tue labbra stillano miele vergine, o sposa,/c’è miele e latte sotto la tua lingua… Son venuto nel mio giardino, sorella mia, sposa,/ e raccolgo la mia mirra e il mio balsamo,/mangio il mio favo e il mio miele,/ bevo il mio vino e il mio latte”.

Quanto alla liturgia dei morti, se le tribù celtiche lo ponevano nelle tombe dei potenti come prezioso viatico per il viaggio nell’aldilà, nel Vicino Oriente se ne ricoprivano le spoglie mortali dei sovrani per renderle incorruttibili. Omero narra che di preziosi unguenti e di miele venne spalmato il corpo di Achille; si dice che Erode I, re di Giudea, preservasse per sette anni ricoprendole di miele le spoglie dalla sposa da lui stesso uccisa; e a lungo si è creduto che nel miele fosse conservato il corpo di Alessandro Magno, prima che una recente reinterpretazione delle parole di Stazio (che lo dice perfusus Hyblaeo nectare, immerso nel miele) conducesse a formulare l’ipotesi che probabilmente si trattava del marmo pregiato descritto da Plinio nella Naturalis Historia come “lapis melleus”, pietra di miele.

Miele dentro e olio fuori” sembra che fosse la risposta di Ottaviano Augusto a chi gli chiedeva il segreto della sua longevità. E in effetti in tutto il mondo antico lo si impiegava non solo nella cosmesi o come afrodisiaco o come dolcificante di pregio per cibi e bevande, ma se ne faceva largo uso terapeutico per le sue funzioni, riconosciute anche ai nostri giorni: quella antibatterica e cicatrizzante in caso di piaghe, ferite o bruciature; quella emolliente, umettante e addolcente del cavo orale e della gola; quella sfiammante esercitata sul sistema digerente; quella depurativa di aiuto al fegato nello smaltire le sostanze tossiche o comunque nocive; quella energetica, indispensabile a chi è sottoposto a sforzo fisico o mentale.

Amantes ut apes vitam mellitam exigunt. (Gli amanti come le api pretendono una vita dolce come il miele), Pompei, Casa degli amanti

Una ricetta antica

Il miele, largamente usato dai romani non solo nei dolci ma in numerose salse e condimenti, oltre che per la conservazione di frutta e carni, aveva un ruolo importante anche nelle bevande come l’idromele, derivante dalla sua fermentazione, il semplice latte e miele, il  mulsum e il melitetes  (vini mielati ottenuti con procedimenti diversi).

Nel Medioevo continuò ad essere prezioso e ricercato finché non comparve nelle botteghe degli speziali il raro e costosissimo prodotto della canna mellis o canna del miele, lo zucchero.

Del mele bullito co le noci, detto nucato

Togli miele bullito e schiumato, con le noci un poco peste e spezie cotte insieme: bagnati la palma de la mano coll’acqua et estendilo: lassa freddare e dà a mangiare. E puoi prendere mandole e avellane in luogo di noci.

Il nucato è un classico della cucina medievale, un dolcetto semplicissimo che richiede tuttavia attenzione e rispetto dei tempi di esecuzione. Io lo preparo in occasione delle feste natalizie secondo questo procedimento:

Scaldare a fuoco dolce 1 kg di miele millefiori. Nel frattempo, preparare la miscela di spezie (1 cucchiaino colmo di zenzero in polvere, un pizzico di pepe nero macinato, un cucchiaino abbondante di cannella in polvere, 1 puntina di chiodi di garofano in polvere) e tritare grossolanamente la frutta secca (noci, mandorle, nocciole, ma anche pinoli o pistacchi) di uno o più tipi.

Versare il trito nel miele ben sciolto e schiumato. Cuocere 30/45 minuti sempre mescolando. A metà cottura aggiungere 1 cucchiaino di miscela di spezie.  Appena la frutta comincia a crepitare, togliere dal fuoco, aggiungere il resto delle spezie mescolando bene e stendere bene il composto su una lastra di marmo o in una teglia antiaderente sufficientemente ampia.

Allo scopo, tuttavia, è opportuno non usare la mano, per quanto bagnata, ma un limone tagliato a metà. Quando il composto è tiepido, tagliarlo a losanghe e servirlo, magari su ostie o sfoglie di alloro per consumarlo senza che le dita si apiccicchino. Si può conservare per parecchi giorni in scatole di metallo.

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