Dipinti e sculture che traggono in inganno anche il più attento degli osservatori, tanto sono fedeli al modello in carne e ossa. È questa la caratteristica della corrente artistica definita Iperrealismo, nata negli Stati Uniti intorno al 1970 e di cui Carole Feuerman è tra i massimi esponenti.

In effetti, se non si conosce già la sua opera, la visione da una certa distanza di Bibi on the beach ball, sulla terrazza della GAM, potrebbe far pensare ad uno shooting fotografico come se ne vedono tanti in giro per la città. Certo, una volta avvicinati l’artificio si svela, ma la precisione nella resa di ogni singolo dettaglio del corpo, dal colore della pelle, alle vene che affiorano sul dorso delle mani, alle ciglia, è davvero impressionante.

Ho visto per la prima volta le opere di questa artista statunitense nella galleria d’arte fiorentina Aria, nel 2013. La mostra si intitolava Hyperbodies e ricordo molto bene lo stupore iniziale, seguito da un imprevisto senso di serenità che mi veniva dall’osservazione più attenta di queste sculture. Sono tornata a rivederle nella stessa galleria anche nel 2015 e quando so che c’è una mostra a lei dedicata cerco di non mancarla.

Questa alla GAM di Roma, che espone quattro sculture e due fotografie di grande formato, fa parte del progetto espositivo From La Biennale di Venezia & Open to Rome. International Perspectives.

Le figure ricorrenti di Carole Feuerman sono nuotatrici, bagnanti, adulte o adolescenti, colte in pose rilassate, a volte in uno stato di sereno dormiveglia, oppure assorte e consapevoli della postura del proprio corpo atletico. L’amore per il nuoto e soprattutto per l’acqua, vista come elemento armonico per eccellenza, è sicuramente il leitmotiv che accomuna tutti i suoi lavori, anche le fotografie.

Nel cortile del settecentesco ex convento che ospita il museo, anche una citazione in bronzo, ma sempre con cuffia da nuotatore, del Pensatore di Auguste Rodin, che dialoga muto con Yaima and the ball e Monumental Brooke with beach ball.

La maestria artistica è sorprendente: la scultrice parte da un calco in silicone della modella, a partire da questo ne realizza uno in gesso e da questo poi sviluppa la scultura in resina. E qui comincia il lavoro certosino di stesura di decine di velature di pittura ad olio, fino ad arrivare al risultato straordinariamente realistico dell’opera finita, che si completa con l’aggiunta dei capelli e delle ciglia.

Non c’è posto per la bruttezza o per il decadimento fisico della vecchiaia, la donna modellata dall’artista americana è statuaria, esprime benessere fisico e pace interiore. È una rappresentazione sicuramente non universale della femminilità, ma lo sguardo di chi crea implica sempre, consapevolmente o meno, una scelta e una visione del mondo; può riflettere una condizione personale o l’aspirazione a un ideale. In questo caso mi sembra che l’idea creatrice voglia immortalare l’attimo in cui la persona è in armonia con sé stessa e con l’ambiente che la circonda, dopo essersi rigenerata nell’abbraccio con l’acqua; penso sia questo l’aspetto che nel mio caso suscita un senso di pacificazione, una contemplazione distesa e semplice, che non va alla ricerca di significati più complessi e articolati.

Del resto, azzardando un paragone più che ardito, i corpi scolpiti dai grandi artisti del Rinascimento erano un’ode alla bellezza classica, all’armonia delle proporzioni e alla forza fisica, un’esaltazione della figura umana nel pieno del suo potere e della sua volontà.

Ma l’arte è apollinea e dionisiaca, per nostra fortuna, si possono amare incondizionatamente i rovelli interiori di Schiele o le distorsioni grottesche di Grosz e al contempo incantarsi davanti alle aristocratiche muse di Boldini o alle fanciulle frivole di Fragonard!

Comunque la si pensi sul significato e la missione dell’arte, credo che la visione di queste creature, di queste ondine contemporanee (alcune con addirittura le goccioline d’acqua che brillano sulla pelle, come se fossero appena emerse dalla piscina o dal mare), sia uno spettacolo rasserenante e una scoperta di come l’arte possa arrivare ad ingannare lo sguardo.

La storia dell’arte è piena di esempi illustri di questo tipo, ne ricordo solo uno, celeberrimo: la Canestra di frutta di Caravaggio, conservata alla Pinacoteca Ambrosiana. Non viene forse istintivo allungare la mano ed afferrare uno degli acini d’uva che sporgono dal cestino?

L’uva…dopo la mostra mi è venuto il desiderio di aprire un vino che dalla Toscana mi sono portata qui a Roma. Un vino che ha un’affinità di fondo con quanto ho appena visto: la fedeltà al reale.

E infatti questa l’intenzione che sta dietro e dentro la bottiglia di Zenobito 2015 dell’azienda agricola La Piana, nel cuore dell’isola di Capraia; tra l’altro un luogo che è un altro esempio di fedeltà, in questo caso al concetto più vero di isola: autentica, anche aspra, non comoda a tutti i costi e quindi non per tutti, non piegata incondizionatamente al turismo, con un mare meraviglioso e sentieri scoscesi profumati di macchia mediterranea. Come si fa a non amare Capraia?

La tenuta vitivinicola, l’unica dell’isola, è parte di un più ampio progetto di tutela del territorio intrapreso nel 2000 dalla famiglia Bollani, che ha recuperato la memoria agricola dei luoghi, ha ripristinato i vecchi terrazzamenti vitati, i muretti a secco e salvato il patrimonio di specie autoctone dall’avanzare della macchia mediterranea, dopo la chiusura della colonia penale ospitata sull’isola. Dal 2015 le uve, che prima venivano trasportate all’isola d’Elba, vengono vinificate nell’ex officina del carcere, ristrutturata allo scopo.

È davvero un bel vino, questo blend di Ciliegiolo e Colorino, affinato per un anno in anfore di terracotta.

La fedeltà al reale come filo conduttore dicevo, eccola: sta nel riuscire a trasmettere inalterate le caratteristiche del vitigno grazie a un materiale come la terracotta, che permette al vino di respirare ma che non cede alcun sapore, al contrario del legno. E nel bicchiere, infatti, i frutti rossi tipici del Ciliegiolo sono vivi e fragranti, accompagnati dagli aromi di erbe spontanee, i tannini sono lievi, la scia fruttata rimane a lungo; un rosso che riberrei con gioia in una serata estiva, magari su una terrazza che guarda gli scogli di un’isola calma, magari mentre dall’acqua emerge una provetta nuotatrice, che si toglie la cuffia e si distende sotto gli ultimi raggi di sole, serena.