Tema assai dibattuto degli ultimi tempi: le imprese non trovano abbastanza manodopera. Dai media specializzati sta passando rapidamente a platee più vaste. Certo, colpisce. Abituati come siamo a pensare, da anni, che il lavoro non c’è. Ma la realtà è sempre molto più complessa rispetto agli slogan e alle ardite semplificazioni alle quali siamo avvezzi. Sono moltissimi gli studi e le indagini che indicano in effetti una rilevante difficoltà delle imprese a trovare persone da inserire nelle proprie strutture.
Cosa significa in realtà? Non basta dire si cercano persone. Le persone hanno competenze. Le competenze sono tecniche professionali, definiamole così per capirci. E sono anche personali, attinenti al modo di essere e comportarsi (le soft skills, competenze morbide, si dice in gergo). Servono le une e le altre per lavorare bene, le imprese lo sanno bene e le cercano nelle persone. Chi parla escludendo queste o quelle è superato. Ma andiamo ancora oltre. Oggi si lamenta la carenza soprattutto delle competenze tecniche professionali. Quelle morbide sembrano un po’ passare in secondo piano.
La situazione economica attuale è di ripresa consistente e, come sappiamo, con buone prospettive di crescita futura per il paese, se non rimarremo di nuovo intrappolati nella scia della pandemia. Il rimbalzo dopo il lockdown è stato quasi sorprendente per entità e rapidità, e ha generato qualche collo di bottiglia negli approvvigionamenti, per l’impennarsi della domanda di beni con i magazzini delle imprese vuoti, dopo mesi di chiusure.
La pandemia ha poi di sicuro accelerato fortemente un’evoluzione economico sociale in corso che altrimenti si sarebbe dispiegata in tempi molto più lunghi. Basti pensare al grande sviluppo del digitale, dal poderoso sviluppo del commercio online al lavoro a distanza, per citare solo alcuni fattori.
Anche questo rapidissimo sviluppo ha come conseguenza la emersione di necessità nuove di ogni tipo: per restare nel mondo delle imprese, comporta, tra molto altro, una nuova organizzazione ma anche la necessità di nuove risorse.
Le imprese hanno la necessità di rafforzarsi già adesso, ma prevedono di averla anche nel futuro immediato. Quelle più attente e dinamiche stanno lavorando per raggiungere questo obiettivo in modo da non lasciarsi sfuggire le opportunità della ripresa e quindi del loro sviluppo, attrezzandosi al meglio anche con ulteriori professionalità.
L’Istat nella sua “Nota mensile sull’andamento dell’economia italiana”, ottobre 2021 indica con chiarezza la situazione:
“Nel terzo trimestre, il Pil italiano ha segnato, in base alla stima preliminare, un nuovo deciso aumento che ha ridotto ulteriormente le distanze con i livelli pre-crisi. La variazione acquisita per il 2021 è +6,1%. A settembre si è registrato un marginale incremento della produzione industriale nel confronto con il mese precedente. Nella media del terzo trimestre, l’indice è aumentato dell’1,0% rispetto al periodo aprile-giugno. A settembre il mercato del lavoro è tornato a mostrare segnali positivi con un aumento degli occupati (+0,3% rispetto ad agosto, pari a +59mila unità) e una diminuzione dei disoccupati (-1,2%, pari a -28mila unità) e degli inattivi (-0,3%, -46mila unità). Il tasso di disoccupazione si è attestato al 9,2% (-0,1 punti percentuali). Il lento recupero del mercato del lavoro si è accompagnato a un ulteriore aumento della percentuale di imprese del settore manifatturiero che hanno dichiarato scarsità di manodopera. Questo disallineamento tra domanda e offerta di lavoro potrebbe implicare un mismatch tra le competenze richieste dalle imprese e quelle disponibili sul mercato.”
Dunque, dice l’Istat, a fronte di una sensibile ripresa dell’economia, vi è un lento recupero del mercato del lavoro. Ma c’è qualcosa in più che forse non ci saremmo aspettati, appunto il “disallineamento tra domanda e offerta di lavoro”.
Citiamo un’altra indagine, tra le tante, che lo conferma: il Bollettino Excelsior UnionCamere/ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro) del novembre 2021 riporta che, per il periodo novembre 2021 gennaio 2022, le imprese nazionali prevedono di fare oltre 1,4 mln di assunzioni. Circa 465mila nuove entrate nel mondo del lavoro sono previste solo a novembre, per le quali però si dichiara una difficoltà di reperimento pari quasi al 39%. Significa che per 4 assunzioni pianificate su 10 si incontrano difficoltà nel trovare le competenze di cui si ha bisogno. Anche – riporta il Bollettino – di molti operai specializzati in svariati settori manifatturieri.
Ricapitoliamo. L’economia sta andando bene, le imprese devono rinforzarsi assumendo ma non trovano ciò che cercano. Ora, è pressochè intuitivo il fatto che sia più difficile trovare le competenze specialistiche di alto profilo, oggi soprattutto digitali.
Ma il punto è che mancano anche ruoli ben più operativi, appunto come operai specializzati, muratori e manovali, autisti per il trasporto merci. E questo è meno intuitivo. Perché si ritiene che non siano necessarie chissà quali competenze specialistiche e dunque tutti, o almeno tanti, possano svolgere quelle attività. E invece…
Sembra paradossale ma era già stato previsto. Era già noto che l’evoluzione degli ultimi tempi a livello mondiale, poi rafforzata dalla pandemia, comportasse la richiesta crescente di competenze specialistiche e di ruoli operativi, ossia la parte alta e quella bassa delle occupazioni, lasciando la parte intermedia in balia degli eventi e delle grandi trasformazioni anzitutto tecnologiche non sempre di segno positivo. Non a caso è in corso da tempo il dibattito sul progressivo depauperamento della classe media, che non è solo economico.
Dunque, non si trovano: il problema presenta moltissimi aspetti di cui occorre tener conto. Di qualità, di quantità, ma non solo. A conferma di quanto si diceva in apertura: la complessità delle cose.
Gli specialisti, gli economisti, le associazioni imprenditoriali, le aziende dicono che mancano profili di laureati cosiddetti STEM (dalle iniziali delle parole inglesi Sciences, Technologies, Engeneering, Mathematics, ossia scienze tecnologie ingegneria e matematica), evidentemente più rispondenti alle nuove professionalità delineatesi e consolidatesi con l’evoluzione tecnologica degli ultimi anni, poi accelerata dalla pandemia.
Vale sì per i laureati, ma mancano anche moltissimi diplomati degli Istituti Tecnici. Da alcuni si sottolinea pure come in realtà non ci siano proprio … le persone disponibili, nel senso letterale del termine. L’Italia (come tutti i paesi occidentali, ma noi forse di più) è già da tempo in una crisi demografica di cui pochi parlano ma che è drammatica in prospettiva, pure per gli inevitabili impatti negativi sul mercato del lavoro. Non si fanno figli e parecchi di quei pochi, perdonate il bisticcio lessicale, se ne vanno oltretutto all’estero.
Per tacer d’altro, ciò significa che stanno diminuendo da anni i disponibili a lavorare. Il tema degli immigrati, tolto dalle facili retoriche e dalle polemiche, assume ben altro spessore se teniamo conto di questa realtà. Ma non finisce qui, vi sono altri aspetti che possiamo considerare, in una specie di rovescio della medaglia.
Le tipologie contrattuali offerte dalle imprese (interessante la lettura dei report periodici INPS dell’Osservatorio sul precariato), che magari non corrispondono esattamente alle aspettative. Forse certe remunerazioni basse, presenti peraltro anche in altri paesi a cominciare dagli USA, ha fatto clamore l’esclamazione di Biden “pagateli di più”.
Magari qualche malizioso apprezzamento del reddito di cittadinanza come strumento di voluta rinuncia al lavoro. O ancora un ripensamento in corso sulle concrete possibilità di un diverso equilibrio tra sfera privata e sfera professionale: l’esperienza forzata della pandemia con quasi tutti costretti al lavoro da remoto, ce le ha fatte sperimentare direttamente, e oggi può essere difficile rinunciarvi. Illuminanti a tal proposito le innumerevoli indagini su cosa pensino i lavoratori della possibilità di mantenere lo smart working dopo il Covid.
Il fenomeno è di rilievo in molti paesi, negli USA parlano di Great Resignation, la grande dimissione. In Italia molti commentatori lo evidenziano: in tanti scelgono di lasciare il proprio lavoro pur in mancanza di alternative pronte. Ciò che ci condurrebbe a ulteriori riflessioni almeno sull’effettivo clima che si respira all’interno delle imprese.
Insomma la complessità è tale e tanta che si dovrebbe discorrere ben più a lungo per ogni aspetto fin qui accennato. Ma è già cruciale averne consapevolezza. Diffidiamo sempre di chi vende slogan o spiegazioni apodittiche in due righe di un tweet.