il mio sposo
di melagrano un chicco mi die’, più soave del miele.
Non lo volevo, io no, ma pur mi costrinse a gustarlo.

narra sconsolata Persefone alla madre Demetra, che china la testa di fronte all’inganno messo in atto da Ade per non perdere la giovane sposa. La subdola offerta del dio degli Inferi ha modificato il patto con Zeus: Core/Persefone non sarà più completamente libera di ritornare alla madre Demetra ma dovrà trascorrere un terzo dell’anno nella brumosa sede dei morti, per poter poi accedere per gli altri due alle dimore degli Immortali. Non una condanna, tuttavia, ma un privilegio dovuto alla superiore volontà di Zeus perché chi mangia qualcosa nella terra delle ombre non potrebbe più tornare tra i vivi.

In effetti la melagrana, simbolo di fecondità, era ritenuta il tramite attraverso il quale le anime scendevano nella carne, dando con ciò vita a una materia altrimenti inerte, ma al tempo stesso condannando le anime alla “tomba-prigione” del corpo.

Questa la base funebre e misterica del valore simbolico del frutto inteso − in Grecia come in Frigia e in altre regioni dell’Asia − nel suo valore vitale e di piacere (poiché il gusto del frutto è legato a quello sessuale), fecondo e generativo, ma anche di morte, una morte tuttavia sentita come preludio alla resurrezione nell’avvicendarsi delle stagioni del quale il mito di Persefone è anche il simbolo.

In età arcaica la nascita di quest’albero meraviglioso era associata a vari esseri femminili, mentre i miti greci lo vogliono nato dal sangue di Dioniso fatto a pezzi dai Titani, e conferiscono ad Afrodite, dea dell’amore, il privilegio di esser stata la prima a piantarlo sull’isola di Cipro. E dunque in Grecia la melagrana, da simbolo del potere della Grande Madre, la dea primigenia dai molti nomi, nel suo duplice ruolo di Colei che dà la vita e Colei che la toglie, fu attribuita ad Hera e ad Afrodite, segno di potere universale nel primo caso (e in questo senso la vediamo spesso figurare scolpita sulle corone e sulla sommità degli scettri), d’amore carnale e di fecondità nel secondo.

Nell’antica Roma fronde di melograno costituivano l’acconciatura delle spose. In India al succo di melagrana si attribuiscono virtù fecondative; nella poesia islamica, e soprattutto persiana, il “vino di melagrana” è associato alle scene d’amore, mentre il fiore del melograno dà il colore alle guance delle belle fanciulle, e i loro seni sono paragonati a due dei suoi frutti; nel sud-est asiatico i semi d’una melagrana aperta indicano i bambini che nascono numerosi ad ogni generazione.

Quanto alla tradizione ebraica, la melagrana è menzionata in molti passi del Vecchio Testamento: il libro dell’Esodo la impone sulle vesti rituali dei Grandi Sacerdoti; quello dei Re ricorda quelle raffigurate sul fronte del Tempio di Salomone; il Deteronomio la inserisce fra i sette frutti della Terra Promessa; il Cantico dei Cantici carica di profonda sensualità lo sbocciare dei suoi fiori. E l’abbondanza dei suoi semi ha precisi riferimenti nella Torah e nella numerologia. Tutti elementi che hanno indotto alcuni studiosi di teologia a individuare ma proprio nel melograno e non nel melo il misterioso Albero della Vita dell’Eden.

Naturalmente, il simbolo è reversibile: una melagrana ancor acerba, che non si è spaccata e dunque custodisce intatti i suoi semi, indica nel mondo islamico la verginità.

Anche nella simbologia mariana figura la melagrana − chiusa come allusione alla virginità o aperta come simbolo della maternità e della generosità delle grazie che da lei provengono. La melagrana fra le manine del Cristo fanciullo è, al tempo stesso, segno di potere universale e promessa di resurrezione (e in questo senso il simbolo si riallaccia al mito di Persefone cristianizzato). Perché, come nei miti antichi, questo frutto regale splendido e ambiguo, dai semi di rubino e il succo color del sangue, rievoca al tempo stesso la vita e la morte, e dunque la Passione di Cristo e il martirio dei suoi primi seguaci.

Il suo nome latino, dunque, malum granatum, cioè “frutto con i semi”, non gli rende giustizia.

Intesa nel suo senso più pieno, come potenza e ricchezza suggerite dalla forza generativa del frutto e dallo splendore dei suoi semi simili a pietre preziose, la melagrana può, come nell’antichità, divenir simbolo regale ed essere avvicinata al globo aureo dei regnanti (che in tedesco si dice appunto Reichsapfel, “Mela dell’Impero”). Per questo motivo gli emiri di Granada ne avevano fatto l’emblema del loro del principato. Per questo nell’Iran della rivoluzione khomeinista la melagrana divenne il simbolo di Dio e al tempo stesso della patria (il melograno è infatti un albero tipico della Persia). Così, dal 1979, l’emblema di stato della repubblica islamica iraniana è stato il nome di Dio disegnato in modo da rappresentare una melagrana, e tale disegno campeggia ancora al centro della bandiera iraniana attuale.

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