Il Ministero del Lavoro, in collaborazione con Banca d’Italia, ha di recente pubblicato i dati relativi alla evoluzione dei rapporti di lavoro dipendente al 30 giugno scorso. Interessantissima lettura, anche se ovviamente un po’ tecnica.

Diciamo subito che i dati non rivelano sorprese particolari, tenendo conto del contesto economico sociale nazionale, che inevitabilmente risente di quello internazionale. Come abbiamo ben imparato a considerare, il mondo intero è avvolto da una ragnatela che coinvolge e integra economicamente, chi più chi meno, Stati e imprese. Un quadro di grande complessità dove fatti e tendenze che sembrano lontanissime alla fine impattano sulla vita di ciascuno di noi. Ricordiamolo, questo quadro. E’ indiscutibilmente in grande evoluzione, ad ogni livello di analisi. Le economie sono in espansione, ma con molte fragilità sotto traccia.

Si accennava in un precedente articolo, ad esempio, all’aumento dei prezzi delle materie prime a livello globale che contribuisce a smuovere verso l’alto l’inflazione. Meno in Europa, più negli Stati Uniti. Dai più si ritiene che l’innalzamento sia temporaneo e non strutturale, dovuto al rimbalzo delle economie che nel giro di pochissimo tempo hanno accelerato la ripresa post Covid.

I prezzi delle materie prime aumentano perché c’è carenza rispetto alla domanda, e questo a sua volta crea difficoltà in molti comparti produttivi: come ad esempio in quello dei semiconduttori (chip), ormai indispensabili per moltissimi ambiti manifatturieri.

Le autorità governative e bancarie centrali (la Federal Reserve in USA e la BCE in Europa) controllano con molta attenzione l’evolversi della situazione, pronte a intervenire con gli strumenti di politica monetaria a disposizione. Per il momento comunque permane una relativa calma.

Gli USA con la nuova amministrazione Biden hanno avviato un paziente lavoro di ritessitura del rapporto privilegiato con l’Europa, piuttosto danneggiato dalle scelte di Trump, appellandosi ai comuni valori liberali e democratici dell’Occidente, anzitutto in chiave anti cinese.

La Cina lanciata nel pieno recupero economico e oltre, non disdegna di inviare segnali all’Occidente di malcelata superiorità del proprio modello economico di capitalismo di stato, autoritario. La chiusura di “Apple Daily” quotidiano pro democrazia di Hong Kong, le regolamentazioni più stringenti per le imprese cinesi quotate sul mercato americano, certe azioni mirate di contenimento alle aziende tecnologiche perché non assumano troppo potere: tutti segnali precisi che Xi Jin Ping invia ai propri cittadini ma anche agli occidentali.

L’Europa, letteralmente trasformata dalla pandemia nei propri approcci ai problemi e alle conseguenti soluzioni, non lesina aiuti economici e finanziari mettendo a disposizione degli Stati membri masse di denaro come mai prima d’ora, ricorrendo a forme di autofinanziamento sui mercati fino a poco fa neanche minimamente ritenuti possibili per ragioni politiche. E’ fortemente impegnata a disegnare, accelerandone la trasformazione anche digitale, il futuro verde dell’intera comunità europea. Il cosiddetto programma “Fit for 55” prevede una trasformazione energetica del mondo produttivo direi quasi radicale per centrare l’obiettivo di tagliare l’emissione di gas serra del 55% (rispetto al 1990) entro questa decade e a zero entro metà secolo.

Intanto il Covid continua a ricordare a tutti, in tutto il mondo, di essere ancora qui, minaccioso e temibile, e che occorre perseverare nel contrastarlo con ogni mezzo. Si potrebbe continuare a lungo, ma il senso è molto chiaro: un periodo di grandi incertezze, di grande complessità e fragilità. La sensazione di trovarsi ad una svolta della storia.

Per tacer d’altro, la pandemia ha impresso una accelerazione vertiginosa agli eventi: oggi è chiaro a tutti che stiamo vivendo un cambiamento d’epoca, dove addirittura vengono rimessi in discussione paradigmi concettuali, sistemi di pensiero, modelli economici che hanno caratterizzato il mondo per decenni e che parevano insuperabili. Non a caso, infatti, si discute apertamente della necessità di rifondare il capitalismo su presupposti diversi, più attenti all’ambiente, alla società e non solo alla mera remunerazione degli azionisti.

Ma insomma cosa ci dicono questi dati del Ministero del Lavoro? A dimostrazione della ragnatela che avvolge tutto e tutti, l’andamento dell’occupazione in Italia è assolutamente coerente con questo quadro di enorme fragilità e incertezza. Il lavoro non si crea per decreto ma si sviluppa grazie a tanti fattori che creano o consolidano le condizioni favorevoli affinché le imprese facciano le imprese, producano, e dunque abbiano bisogno di forza lavoro, di persone oltre che di tecnologie.

Vediamoli questi dati. L’andamento positivo della dinamica occupazionale, già evidenziatosi da aprile con la ripresa delle attività economiche in seguito alla messa sotto controllo del Covid, si è “nettamente rafforzato” nei mesi seguenti, favorito dai progressi della campagna vaccinale e dal superamento dei vincoli alle attività economiche.

Nel complesso, nei sei mesi dell’anno si sono creati 719.000 posti di lavoro dipendente, ossia oltre il 12% in più rispetto allo stesso semestre del 2019, quindi prima della pandemia. Il rimbalzo, dunque. Sono nella stragrande maggioranza posizioni di lavoro a tempo determinato, 611mila nel semestre al netto delle cessazioni.

Si possono fare molte considerazioni su un dato simile, giustamente. Una cosa però è certa: le imprese hanno ben chiara quella complessità e quelle incertezze e dunque inevitabilmente procedono con estrema cautela nel ricorrere a rapporti di lavoro stabili e duraturi. Oltretutto ci sono anche, purtroppo sempre di più, considerazioni sulla mancata corrispondenza tra le esigenze delle imprese e le competenze professionali reperibili sul mercato. Purtroppo, perché ciò simboleggia una carenza del nostro sistema educativo e formativo, in difficoltà a stare al passo coi tempi.

“Rimangono estremamente modesti i ritmi di crescita delle posizioni permanenti, su valori lievemente inferiori a quelli registrati l’anno scorso. L’effetto positivo sui saldi dovuto al blocco dei licenziamenti per motivi economici è stato controbilanciato dall’estrema debolezza delle assunzioni e delle trasformazioni a tempo indeterminato”

Cresce bene l’industria: nei primi sei mesi ha creato 165mila nuovi posti di lavoro, più che nello stesso periodo del 2019. Ma stanno crescendo rapidamente anche nei servizi, che fino a aprile – ci dice il Ministero – erano invece pressoché fermi.

Altro dato significativo è il saldo netto positivo di nuovi posti di lavoro femminili nel semestre, maggiore che nel 2019.

Questi dati sull’occupazione, per quanto relativi solo al lavoro dipendente, rispecchiano certamente una fase di ripresa, segnata però ancora da incertezza e fragilità.

D’altronde anche i recenti dati sulle stime del Prodotto Interno Lordo rilasciati dalla Commissione UE indicano che il nostro paese è su una buona strada di recupero: a fine anno si prevede infatti una variazione positiva di circa il 5%, in rialzo rispetto al 4,2% che veniva previsto a primavera. Con questo passo, nel 2022 l’Italia avrà recuperato del tutto le perdite dovute alla pandemia.

Le fonti informative istituzionali e di settore indicano anche un sentimento positivo degli operatori rispetto all’immediato, nonostante la notevole mole di incertezze. Non a caso la rilevazione ISTAT di fine luglio dell’indice di fiducia delle imprese manifatturiere e di servizi (sulle aspettative attinenti al proprio business) evidenzia un miglioramento e, in particolare nei servizi, “un aumento marcato della fiducia superando decisamente i livelli precedenti la crisi”.

Molto dipenderà anche dalla effettiva capacità di realizzazione, e quindi di incidere, del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) recentemente presentato dal Governo Draghi alle istituzioni europee e da queste approvato. Dunque dai fondi europei. E dalla efficacia del piano di vaccinazioni per circoscrivere il più possibile la pandemia e quindi i rischi di nuove chiusure.