Già se ne è fatto riferimento tempo addietro in questa rubrica: oggi l’impresa che offre lavoro non sembra trovare facilmente piena rispondenza alle proprie esigenze. Sono molte le sfaccettature del tema, ma di fatto si può riassumere che gli imprenditori cercano le persone di cui hanno bisogno per la loro attività, ma non le trovano e se le trovano, spesso non riescono proprio a portarle in azienda.

Aggiungiamo allora un altro aspetto, che complica ulteriormente: chi lavora, sta dimostrando crescente disaffezione, distacco, scelta per altre priorità di vita. Si dimette, talvolta anche “al buio”, senza alternative pronte. Sempre più mi capita di parlare con imprenditori o capi di azienda che dichiarano la loro sorpresa, che poi sfocia spesso nell’irritazione, nel non riuscire a soddisfare le proprie carenze d’organico. Di frequente ci si ferma alle recriminazioni, del tipo “il reddito di cittadinanza tiene i ragazzi sul divano”, “i giovani non hanno voglia di lavorare”, non sempre si approfondisce seriamente.

Ebbene, sono ormai molto numerose le ricerche e le indagini delle più diverse fonti che dimostrano la dimensione quantitativa e qualitativa di questi fenomeni che riguardano il mercato del lavoro. C’è certamente una questione di corrispondenza tra le competenze professionali richieste e quelle davvero disponibili. Si cercano conoscenze ed esperienze che non si trovano. L’analisi sulle cause sarebbe interessantissima e piuttosto complessa, ma evitiamo di affrontarla qui. Ma c’è un problema ancora differente, nuovo, forse inaspettato, che rinvia alla disaffezione più sopra richiamata. Partiamo intanto da qualche dato oggettivo che ci aiuta a inquadrare il contesto di riferimento. Sullo sfondo ci sono le grandissime incertezze dovute alla guerra in Ucraina e a certi effetti della pandemia, come per esempio i porti chiusi in Cina per lockdown che frenano il commercio internazionale con molti effetti a cascata. Pur tuttavia, in verità, non mancano le opportunità di lavoro, almeno in certi settori economici.

Il Bollettino Excelsior UnionCamere/ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro) di maggio indica come nel periodo maggio – luglio 2022 a livello nazionale le assunzioni previste dalle aziende siano oltre 1,5 milioni ma anche come per ben il 38% delle nuove esigenze di personale a maggio ci si aspettino difficoltà di reperimento. Il Flash ISTAT su Occupati e disoccupati del 2 maggio fornisce i dati a marzo 2022: “il numero di occupati a marzo 2022 è superiore a quello di marzo 2021 del 3,6% (+804mila unità); l’aumento è trasversale per genere, età e posizione professionale. Il tasso di occupazione è più elevato di 2,8 punti percentuali”. Il tasso di disoccupazione (il rapporto % tra disoccupati e forza lavoro, ossia gli occupati e i disoccupati) è sceso all’8,3% tornando ai livelli del 2010 e il tasso di inattività (il rapporto % tra inattivi – cioè le persone né occupate né disoccupate – e la popolazione) è diminuito al 34,5% ai livelli di prima della pandemia.

In questo contesto, intervengono poi molte ricerche e analisi, come quella recentissima del Politecnico di Milano (Osservatorio HR Innovation Practice), svolta tra molte imprese. Ha evidenziato, oltre alla carenza di competenze, un altro aspetto che potrebbe sorprendere qualcuno: certe organizzazioni aziendali sono sempre meno attrattive nei confronti delle persone. Le persone non accettano di lavorarvi o si dimettono: molti lavoratori hanno cambiato o intendono cambiare lavoro nel breve medio periodo (il 45% del campione); in svariati casi, 4 su 10, hanno lasciato un’azienda senza avere un’alternativa pronta. Segni evidenti di malessere.

All’inizio del 2022 l’Associazione Italiana Direttori del Personale (AIDP) ha svolto un’indagine tra oltre 600 aziende e i risultati confermano queste evidenze. In particolare tra i giovani, tra i 26 e i 35 anni di età, si manifesta il fenomeno delle dimissioni volontarie. Altrettanto recentemente sono stati diffusi gli esiti di una ricerca svolta da Area Studi Legacoop e Ipsos: rilevanti per i lavoratori l’aspetto economico e quello contrattuale (che soddisfano l’esigenza di stabilità dell’esistenza), ma non lo è meno la qualità del lavoro, l’equilibrio tra lavoro e privato, che deve essere realmente possibile.

Le persone sembra dunque non “sgomitino” per essere assunte dalle imprese. Ogni generalizzazione è pericolosa, tuttavia alcune tendenze di fondo sembrano emergere consolidate. Non è peraltro fenomeno solo italiano, ma riguarda molti altri paesi a cominciare dagli Stati Uniti, dove da ben prima di noi parlano e discutono apertamente di great resignation: molto interessante a questo proposito il documento McKinsey (“Gone for now or gone for good. How to play the new talent game and win back workers”, aprile 2022). In Italia, tutto sommato, esso è meno incisivo che altrove, ma si manifesta anche da noi. Dunque c’è una incrinatura che sembra allargarsi tra ciò che le aziende possono o vogliono offrire e ciò che le persone desiderano. La questione è calda, tra addetti ai lavori ma non solo.

Affiora la semplicissima domanda: perché accade? La risposta che emerge dalle ricerche è assai problematica. Entrano in gioco molteplici aspetti, di tipo economico, sociale, psicologico, culturale. Pare delinearsi un nuovo approccio al lavoro con esigenze diverse dal passato da parte soprattutto dei lavoratori più giovani. Oltre all’aspetto economico, all’importanza del ruolo svolto, ciò che conta è la possibilità di fare esperienza in un contesto stimolante e motivante che al contempo permetta però un efficace equilibrio tra lavoro e vita privata. Superando così quello che per decenni ha fatto la differenza: l’impegno costante, senza orari, la famosa disponibilità al lavoro h24 che per più di un imprenditore costituiva il fattore decisivo, e forse costituisce tuttora. Invece è diventato cruciale il tema del benessere, dell’equilibrio personale, dove il lavoro è importante ma non deve essere l’unico fattore di vita, come spesso certe convenzioni sociali hanno imposto fin qui. Ci si passa sopra molto meno.

Dunque qualità del lavoro invece di quantità. Qualche commentatore non a caso parla di filosofia yolo (you only live once, tu vivi una volta sola) che si sta diffondendo dagli Stati Uniti anche qui da noi. Sicuramente quella giovanile è fascia di età che ha sofferto più di altre gli effetti della pandemia, con ansia, depressione, disturbi psicologici. Se ne parla, un po’ sottotraccia ma se ne parla. La pandemia ha dimostrato al mondo intero come sia possibile concepire e organizzare il lavoro in un modo diverso, senza per forza essere fisicamente presenti in azienda. Ha dimostrato come sia possibile quindi trovare un migliore equilibrio tra vita professionale e vita personale, tra esigenze produttive e esigenze familiari. Maggiore libertà, autonomia, certo anche maggiore senso di responsabilità, senza peggiorare la produttività.

Ora le imprese devono fronteggiare trasformazioni e incertezze: la guerra, i problemi di approvvigionamento delle materie prime, i tassi di interesse in risalita per fronteggiare l’inflazione crescente, solo per citarne qualcuna. Ma, almeno finora, non è ancora una situazione di crisi conclamata. Certi indicatori nazionali (il livello di produzione industriale, lo stesso PIL) si stanno raffreddando assai, segno brutto. Ma bilanci positivi e distribuzione di dividendi non mancano. Le imprese così devono essere prudenti, quando si affacciano sul mercato del lavoro e anche dopo: a giudicare da ciò che riportano le indagini, i lavoratori lamentano trattamenti economici bassi (retribuzioni e benefits), tipologia di contratti offerti che non garantisce stabilità per i propri progetti di vita. Aggiungiamo altri fattori, per come emergono da quelle ricerche: l’azienda dovrebbe darti l’effettiva opportunità di crescita e di carriera, metterti in condizione di poter perseguire il benessere psicofisico anche attraverso una maggiore flessibilità nell’organizzazione del lavoro (il tema dello smart working), dovrebbe fare riferimento a valori autentici di attenzione alla sostenibilità ambientale, dovrebbe investire nel cambiamento e nella trasformazione digitale. Sono tutti fattori che contribuiscono a fare dell’impresa un luogo dove le persone lavorano coinvolte e motivate. Dove le persone quindi possano stare bene, psicologicamente, fisicamente, socialmente.

Le persone, anche indotte dall’esperienza della pandemia (ha indicato priorità di vita differenti), stanno rivedendo le proprie esigenze, ciò che si aspettano dalle imprese. Sono fenomeni che magari potrebbero sembrare marginali: chiunque potrebbe pensare che insomma, alla fine, il reddito dipende dal lavoro e dunque se voglio vivere… poche storie. O che sia solo una questione di tempi: la pandemia, creando scompigli, ha trasformato il mondo del lavoro, facendo emergere priorità diverse e nuove, ma più passerà il tempo, allontanandoci da essa, e più esse torneranno quelle di prima.

Sia come sia, le difficoltà delle imprese nel trovare e trattenere le persone sono reali, oggettive. Le ricerche lo stanno dimostrando, non ci si può girare dall’altra parte. Nulla però passa senza conseguenze. Le imprese che più sapranno adeguarsi e rispondere meglio a questi tempi trasformati, più saranno o torneranno attrattive verso chi lavora, più si avvantaggeranno rispetto alle altre che si dimostreranno meno attente. Generando così un circolo virtuoso autorafforzante tra persone capaci e soddisfatte e imprese di successo. Una sfida che fa tremare i polsi. Come ho sentito dire a un imprenditore toscano: “fino a qualche tempo fa erano i giovani candidati a vendersi bene per essere assunti, oggi è l’impresa che deve farlo per riuscire ad assumerli”.

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