“Poveri toscani. L’arte e il genio di trasformare la scarsità in ricette straordinarie” è il nuovo saggio di Maria Salemi, dove tra polente, stufati e bolliti troviamo anche una ricetta dal nome un po’ bizzarro: “Sbroscia”, appunto, che forse non rende merito a questo piatto straordinario della nostra tradizione contadina.
Presso il ristorante Il Pratellino, a Firenze, incontro Maria, che mi racconta i segreti e gli aneddoti legati a questa gustosissima ricetta toscana.
“La Sbroscia ha un nome sgradevole – racconta Maria – avevo un amico che era del pesciatino e diceva spesso ‘questa è una sbroscia’ quando rifiutava qualche piatto perché lo riteneva troppo brodoso. Perché nella zona di Pistoia ‘sbroscia’ vuol significare ‘neve pesticciata’. Quello che io ho voluto riportare nel mio libro è la tradizione versiliana di questo piatto a base di pane scuro abbrustolito, fagioli e zucca gialla. Il tutto arricchito dalle erbe; una ricetta che ha un gusto deciso ma piacevole e che sembra originato in qualche monastero francescano. Un piatto dove si ci deve essere il brodo per il pane, ma nella giusta quantità.”
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Non solo ricette ma un gustoso viaggio nella cultura del cibo toscano di un tempo, quando con poco nascevano grandi capolavori, un’epoca in cui le materie prime avevano un odore e una consistenza che oggi difficilmente riusciamo a ritrovare.
“Nel mio libro ho trattato la cucina fatta con il pane,” – prosegue l’autrice – “le acquecotte e le zuppe che costituiscono due capitoli diversi. Poi i vari tipi di pane e tutte quelle ricette che si fanno con le farine: di grano, di mais, di ceci, quella dell’albero del pane, quella di castagno. Un capitolo è dedicato a quei piatti realizzati con il sangue, perché una volta tante ricette erano a base di questo ingrediente, non solo gli insaccati ma anche i migliacci, i roventini e così via. E poi la cucina dell’acqua che scorre e che stagna, quindi le paludi, i ranocchi, ecc… Molti piatti che racconto nel mio libro forse nessuno li realizzerà, ma mi sembrava ingiusto non raccontare la tradizione”.
Anche i tempi di cottura oggi sono molto diversi da quelli di una volta, come differenti sono anche la consistenza e l’odore del cibo.
“Adesso purtroppo andiamo verso il deodorato, verso il preparato e molte persone non amano vedere la forma dell’animale. Ricordo che quando da giovane entravo in macelleria c’era la carcassa dell’animale appesa a gocciolare il sangue nella segatura, ero bambina e non mi faceva il minimo effetto, eravamo abituati a queste cose. Cucina povera di un tempo vuol dire anche gustare quella consistenza, quel sapore e quell’odore che ora si definisce puzza e che prima era semplicemente odore di cibo crudo.”
Nel libro di Maria Salemi si trovano appunto i piatti poveri di una volta che oggi sono paradossalmente diventati costosi, e spesso non facilmente eseguibili, alla base dei quali c’era sempre la stagionalità della materia prima.
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“I sapori che si ottengono da un ingrediente prodotto in stagione non sono lontanamente paragonabili a quelli che troviamo fuori stagione” – racconta Francesco Carzoli, ristoratore in Firenze – “oggi purtroppo siamo abituati a trovare tutto e sempre, ma questa è una cosa dalla quale dovremo guardarci bene da metterla in atto.”
“Poveri toscani” è un saggio che l’autrice dedica alle nuove generazioni, con una raccomandazione.
“Si può mangiare bene facendosele le cose, usando le proprie mani, gli occhi e l’olfatto.” – sostiene Maria – “Saper accettare la diversità del cibo di una volta rispetto a quello di oggi. Oggi andiamo verso la fettina, il cibo pronto, il pret a manger e così via, certi tipi di cucina richiedevano tempo, sono cose che vanno riscoperte, e i giovani dovrebbero imparare a recuperarle.”