Vi siete mai chiesti perché un alimento ha il nome che ha e quale ne sia il significato? Provate a farlo, cioè ricercatene l’origine, e vedrete un intero mondo spalancarsi davanti ai vostri occhi.

Fate solo attenzione alle false etimologie come quella, ad esempio, che a causa del suo colore scuro faceva derivare il nome della melanzana dall’aggettivo greco μέλας, che significa appunto nero. Alquanto sbrigativo è asserire, come fanno varie enciclopedie e dizionari, che deriva dall’etimo arabo, bādingiān “incrociato” con mela; approssimative le spiegazioni fornite dai più disparati articoli di gastronomia, per non parlare poi di quelli che si lanciano in fantasiose disquisizioni e improbabili riferimenti storici.

In realtà le cose sono un po’ più complesse. Tanto per cominciare, la parola bhandhākī, con cui è designata la melanzana in sanscrito, che è una delle lingue più antiche del subcontinente indiano, sembra avere un’ancora più antica radice poi rifluita nelle lingue delle popolazioni indoeuropee che migrarono in quei luoghi a partire dal 3000 a.C.

Il nome passò quindi in Persia, dove fu modificato in bâdenjân, che gli arabi avrebbero a loro volta trasformato in bādinjan o al-bādinjan, ancora oggi in uso, adottato in molte aree della penisola iberica. In castigliano, ad esempio, suona berenjena e berinjela in portoghese; e altrettanto potremmo dire del catalano albergínia o del francese aubergine.

Fin qui, tutto chiaro, ma c’entra poco con l’italica voce “melanzana”, che sembra così diversa da quelle arabe e iberiche.

“Sembra”, appunto, ma tanto diversa non è.  Il nome di quest’ortaggio, ignoto al latino e al greco della classicità, fu introdotto in Italia dagli arabi all’inizio del IV secolo ma successivamente il loro bādinjan, se in certe aree prese il suffisso “petro”, da cui pedro-badingian dando origine a petronciano (l’altro nome della melanzana) in altre subì l’aggiunta del suffisso “melo” divenendo così melo-badingian e poi melangian, da cui l’attuale nome. E va subito precisato che la nostra mela non c’entra per niente, in quanto il nome deriva dal latino malum, da tradursi genericamente con “pomo, frutto” un termine che spesso si premetteva ai nomi di frutta e verdura provenienti da Paesi lontani, come ad esempio la melagrana e la melangola, o addirittura la pesca (mala persica, frutti della Persia).

Furono forse i frati Carmelitani a diffonderla un po’ dappertutto in Italia, anche se all’inizio destò sospetti e timori. Del resto, lo stesso medico arabo Ibn Butlan (XI sec.) aveva affermato che l’ortaggio generava “melanconici umori” e spingeva alla lussuria smodata: accuse riprese da numerosi studiosi e naturalisti occidentali secondo i quali, oltre a scurire la pelle del viso, era causa moltissime malattie fisiche e mentali accogliendo e diffondendo la credenza che il nome di melanzana derivasse dal latino malum insanum, frutto insalubre.

Ma nel Novellino (una raccolta di novelle toscane, dell’ultimo ventennio del XIII secolo) compare una nuova accusa, lanciata dall’alto della sua cattedra bolognese dal medico Taddeo Alderotti:  “chi continuo mangiasse nove di petronciano, diventerebbe matto”.

Ecco dunque la seconda accezione della voce malum insanum come “frutto della follìa”, ripresa a metà Seicento dall’agronomo Vincenzo Tanara che affermava: “sono li melanzani, quasi mala insana, perché mangiati, turbando la mente, fanno quasi impazzire”

All’inizio del Cinquecento, lo spagnolo Gabriel Alonso de Herrera aveva addirittura sostenuto che “gli Arabi la portarono in Europa per uccidere con essa i Cristiani”: un po’ come ci sarebbe stato in America chi avrebbe accusato il cuoco di Abramo Lincoln di aver tentato di avvelenare il presidente cucinandogli dei pomodori.

Melanzana e pomodoro hanno infatti in comune la pessima fama di cui furono a lungo oggetto e che ne frenò la presenza nei ricettari dei cuochi e la diffusione sulle tavole dei ceti abbienti.

Il Mattioli, ad esempio, medico senese del XVI secolo, oltre ad accusarli di originare una serie di disgustose malattie, li accomunava alla mandragora, una solanacea usata come medicinale ma impiegata anche in stregoneria per le sue speciali virtù. Creatura che partecipava sia del regno vegetale che di quello animale, se estratta dal suolo da cui emergeva solo con un ciuffo di foglie, avrebbe infatti emesso un urlo così straziante da far perdere la ragione se non addirittura da uccidere chi lo avesse sentito.

A queste notazioni negative sul nostro oscuro e vilipeso ortaggio se ne aggiunsero altre di valenza gastronomica. Se il Mattioli lo definisce “frutto di una pianta volgare”, al botanico e naturalista Costanzo Felici, suo contemporaneo, ripugna l’avidità di quanti lo consumano cotto sulla brace, sulla gratella o fritto, condito con sale e pepe, mentre Bartolomeo Scappi, il cuoco più famoso del nostro Rinascimento lo chiama “pomo sdegnoso”, da disdegnare. Espressioni, tutte, che ci fanno legittimamente pensare all’esistenza di un pregiudizio della cultura gastronomica dei ceti abbienti nei confronti di un ingrediente assai utilizzato dalla cucina ebraica, ipotesi che sembra confermata dall’affermazione contenuta nel trattato di scalcheria di Antinio Frugoli (1631) secondo il quale le melanzane “non devono essere mangiate se non da gente bassa o da ebrei” e, più o meno nello stesso periodo, dal Tanara, che le ritiene “vivande per campagna…e massime per la famiglia (dove “famiglia” significa “servitù”) siccome per gli ebrei sono costumato cibo.

Per rialzare le sorti del nostro oscuro, vilipeso e meraviglioso frutto della terra, ci piace concludere con l’arguta osservazione di uno che di cucina se ne intendeva, Pellegrino Artusi, per il quale “Petonciani e finocchi, quarant’anni or sono, si vedevano appena sul mercato di Firenze; vi erano tenuti a vile come cibo da ebrei, i quali dimostrerebbero in questo, come in altre cose di maggior rilievo, che hanno sempre avuto buon naso più de’ cristiani”.

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