Strana storia, quella degli agrumi nel nostro Occidente. Rugosi cedri, luminosi limoni, arance d’oro lo invasero pacificamente giungendo dall’Oriente in fitte schiere di razze e varietà, di innesti e di incroci tutti diversi per forma, colore, aroma e virtù. Più preistoria che storia, comunque, fin quasi alle soglie del XX secolo, e senza radici che affondino nel mito perché le rare leggende che ruotano intorno ad essi sembrano piuttosto nate dopo il loro arrivo, quasi a giustificarne la straordinaria bellezza, la sensuale fragranza, l’efficacia nel dissetare, nutrire, curare.

È forse per questo che i loro alberi sempreverdi, che portano allo stesso tempo foglie, fiori, frutti sia acerbi che maturi, sono diventati simbolo dell’eterna giovinezza, della vita che fiorisce al riparo dalla malattia, dalla corruzione e della morte in favolosi giardini ai confini del mondo, quasi rinnovata promessa del paradiso perduto, della perpetua primavera, dell’età dell’oro dell’umanità.

Oggi li vediamo gettati alla rinfusa sui banchi della grande distribuzione, ma ancora ai primi dell’Ottocento Giorgio Gallesio, eclettico erudito, diplomatico e oculato amministratore della cosa pubblica, scriveva – “Tutto in questi alberi incanta gli occhi, soddisfa l’odorato, eccita il gusto e nutre il lusso e le arti”. E vastissima è la letteratura che li vede protagonisti nel campo della biologia, della patologia, dell’agronomia, della chimica industriale e del commercio. Senza contare il ruolo da loro svolto nella storia, nella poesia, nella novellistica, oltre che nelle arti decorative e figurative in genere.

Data la complessità dell’argomento, al momento ci occuperemo solo del loro faticoso ingresso in cucina, e per farlo dobbiamo risalire il corso dei secoli, tenendo tuttavia presente come l’acidità dei frutti originari li facesse ritenere poco adatti alla tavola, considerandoli piuttosto curiosità botaniche di lusso, da coltivare come piante ornamentali lungo i portici o nei frutteti delle case signorili, in vasi di terracotta o in tini che si potessero facilmente spostare al riparo dalle intemperie. E successivamente, sulla scia della medicina e della profumeria arabe, che ben ne conoscevano gli effetti miracolosi sull’organismo e l’inebriante aroma, nella medicina e nella profumeria della nostra penisola.

Furono i cedri, di cui Apicio, raffinato gastronomo vissuto fra il I e il II sec. a.C.),  fornisce la ricetta per conservarli pur non riportando ancora nessuna notizia quanto al loro utilizzo, i primi a comparire sulle tavole romane più ricche, per esservi consumati a fette, conditi con aceto o miele.  E pensare che Teofrasto, il grande naturalista di Eresia (IV-III sec. a.C.), che per primo aveva notato la canna mellis, la canna da zucchero, sembrava ignorarne l’uso commestibile presentando quello che chiamava “pomo di Media” o “di Persia” (melon medikon o persikon) come “Il frutto che non si mangia”.

Importati forse dagli ebrei che li utilizzavano sin dall’antichità in alcune feste religiose, nel IV secolo cominciarono a essere coltivati nel sud della penisola, in Sicilia e in Corsica dopo che ne erano state selezionate varietà più dolci che portarono alla comparsa di vasti e prosperi “citreti” nelle terre meridionali dell’impero.

Quanto alle arance e ai limoni, furono probabilmente i romani a importarne i primi lungo le vie commerciali che dai lontani paesi dell’Oriente giungevano ai porti del Mar Rosso. La scoperta, a Pompei,  dei loro alberi che si affollavano nelle ricche decorazioni parietali nella casa poi detta “del frutteto” (1951), e la citazione in un documento del 1094 di una via “de Arangeriis” (degli aranciari) nel territorio di Patti, in Sicilia, hanno permesso infatti di anticipare di vari secoli la loro presenza in Italia, il cui merito veniva comunemente attribuito ai crociati.

Sembra comunque che essi abbiano svolto un ruolo importante nel diffondere questi frutti nelle nostre Repubbliche marinare e tra i Franchi. A partire dal loro rientro dalla prima spedizione in Terrasanta (1096-1099), infatti, gli agrumi popoleranno i giardini veri e quelli fittizi, a mosaico o dipinti, cominciando ben presto a esser considerati colture tradizionali in tutte le zone toccate dall’espansione musulmana. E dunque gli speziali affiancarono al loro impiego in farmaci di largo uso e in estratti miracolosi che rendevano la pelle luminosa eliminandone le imperfezioni, la realizzazione di preparazioni raffinate come canditi, confetture di frutta e miele, rinfrescanti bevande profumate.

 Al consiglio di bruciarne le scorze per inalarne il benefico aroma, si aggiungevano precise prescrizioni salutari relative al loro impiego nelle salse o come aromatizzanti sia della carne che del pesce. In cucina, infatti, gli agrumi entrarono timidamente con il trecentesco Liber de coquina, per poi invaderla nei secoli successivi. Curiosa fra tutta, la ricetta di una crema di uova, zucchero e succo d’arancia (amara, naturalmente, dato che saranno i portoghesi a donarle all’Occidente fra Quattro e Cinquecento; è per questo motivo che portugal, purtualle e consimili sono i nomi loro a lungo attribuiti in alcuni dialetti della nostra penisola) che il tedesco Giovanni di Bockenheim, cuoco di papa Martino V, ha espressamente dedicato a “ruffiani e prostitute” non si sa bene se per evitarne o favorirne i cedimenti alle gioie della carne.

Se a partire dal XII secolo le piante di agrumi erano ormai un’importante presenza nei giardini del Mediterraneo sia come elemento decorativo che per succosi frutti color dell’oro che vi si coltivavano, nel XVIII si trasformarono in una considerevole fonte di reddito per le comunità di Sicilia, Puglia, Campania e Liguria.

Articoli a parte meriterebbero la loro complessa e affascinante simbologia o le incerte leggende che le legano, ad esempio, al giardino delle Esperidi, come pure la loro infinita varietà, l’importanza che rivestivano in certe pratiche magiche a sfondo soprattutto sessuale, l’origine dei loro nomi o la loro presenza nell’arte: poesia, pittura, scultura, perfino architettura di pregio dettata dalla necessità di ricoverarli in serre degne della loro preziosità.

Meno studiati, anche perché più lenti a spostarsi verso Occidente o perché frutto di innesti, ibridi, mutazioni o perché poco utilizzati in cucina, pompelmi e mandarini, limette e lumi e altri ancora.

Ultimo venne il kumquat.

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